Mobbing
Con il termine mobbing, coniato agli inizi degli anni settanta dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie con l’obbiettivo di escludere un membro dello stesso gruppo, si indicano, in generale i comportamenti violenti che un gruppo (sociale, familiare, animale) rivolge ad un suo membro. Il mobbing quindi identifica quell’insieme di comportamenti violenti (angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, insulti, maldicenze, ostracizzazione, etc.), anche attuati a mezzo della vera e propria violenza fisica, perpetrati da parte di uno o più individui nei confronti di un altro individuo. Tali comportamenti sono generalmente prolungati nel tempo e lesivi della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica del mobbizzato. I singoli atteggiamenti molesti anche se non raggiungono necessariamente la soglia del reato o anche se possono non essere di per sé illegittimi, nell’insieme producono danneggiamenti anche gravi con conseguenze lesive sul patrimonio, la salute e l’ esistenza stessa della vittima.
Sul lavoro
Questa pratica è spesso condotta con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro, esimendo l’azienda dal ricorrere al licenziamento, o per ritorsione a seguito di comportamenti di denuncia ai superiori o all’esterno di irregolarità sul posto di lavoro, o per il rifiuto della vittima di sottostare a proposte o richieste sessuali, di eseguire operazioni contrarie a divieti deontologici, etici o illegali.
Conseguenze sulla salute
Il mobbing non è una malattia ma può portare il mobbizzato ad ammalarsi. La patologia psichiatrica più frequentemente associata è il disturbo dell’adattamento fra le cui conseguenze rientrano perdita d’autostima, depressione, insonnia, isolamento. Il mobbing è causa di cefalea, annebbiamenti della vista, gastrite, dermatosi, tremore, tachicardia, disturbi della socialità, sudorazione fredda, nevrosi, depressione, isolamento sociale
Comportamenti
MOBBER
Sembrerà strano, ma le modalità con le quali opera il mobber (colui che svolge attività vessatoria e molestie in un luogo di lavoro) e le conseguenze che si ripercuotono sul mobbizzato sembrano essere sempre le stesse e sono facilmente riconoscibili. Il mobber utilizzerà, al fine dell’espletamento del mobbing, mezzi quali il demansionamento, le ingiurie, comportamenti discriminatori e le sottrazioni di mansioni. Il mobber cercherà sempre di crearsi delle alleanze e di convincere i colleghi dell’inadeguatezza e dell’incapacità del mobbizzato, in modo da creare un gruppo che non solo non testimonierà mai a favore del mobbizzato, ma addirittura parteciperà all’attività del mobber. Per far meglio comprendere il fenomeno, viene fatto spesso dagli esperti un paragone: il gruppo di lavoro viene identificato come un gruppo di cani randagi. Normalmente si è notato che, quando nel gruppo di cani randagi c’è un cane più debole gli altri, senza motivo gli altri si coalizzano per allontanarlo e distruggerlo. Questo è quello che avviene nell’ambiente lavorativo. Molto difficilmente il mobbizzato troverà dei colleghi solidali. Il mancato sostegno dei colleghi spesso deriva dal fatto che essi temono di essere a loro volta mobbizzati, hanno paura di attirare le inimicizie del mobber e inoltre si configura l’idea che probabilmente se viene realizzata un’attività di mobbing nei confronti di un determinato soggetto è perché forse in fondo se lo merita.
MOBBIZZATO
Anche colui il quale è oggetto di mobbing assume un comportamento tipizzato: diventa più fragile, facilmente incline al pianto, perde completamente il sonno, il pensiero dell’attività vessatoria diventa elemento fisso e costante in tutta la sua attività giornaliera, rientra a casa e condivide il suo disagio con i parenti, si chiude e spesso diventa irascibile, comincia a comunicare poco anche con le persone più vicine. Anche nei rapporti con l’esterno il mobbizzato diventa più restio alla frequentazione di amici e parenti, cerca di evitare i luoghi affollati, dove sente ancora una volta il peso della solitudine, spesso si registra un abbassamento delle difese immunitarie e le malattie che erano latenti (epatite, cirrosi, ecc…) si manifestano, aggravando le condizioni di salute del lavoratore. Inoltre, non sono rari anche capogiri e svenimenti dovuti allo stress e all’insonnia.
Casi diffusi
NECESSITA’ DI LIBERARE UN POSTO PER ASSUMERE PERSONE VICINE
In talune circostanze si è verificato che, soprattutto da parte di lavoratori gerarchicamente superiori si sentisse la necessità di eliminare lavoratori che occupano posti relativi a determinate professionalità per permettere l’ingresso in azienda di conoscenti e amici. Anche in questo caso si può realizzare un’attività vessatoria che può notevolmente pregiudicare non soltanto i legami aziendali, ma soprattutto può avvilire il lavoratore che è oggetto di rappresaglie e vessazioni, fino a costringerlo a dare le dimissioni.
ANZIANITA’ DI SERVIZIO
Molto spesso, nelle grandi aziende, ma anche in piccole imprese, si realizza la circostanza che lavoratori che hanno un’anzianità di servizio elevata risultino poco ricettivi nei confronti delle nuove tecnologie che si vanno affermando o risultano comunque un “ostacolo” per l”azienda che non ha il tempo né la voglia di professionalizzare tali risorse attraverso corsi o con l’aiuto di altro personale. E così, il lavoratore “anziano” diventa “scomodo”, improduttivo e spesso demansionato. Nella grande maggioranza dei casi, più che di demansionamento si parla di sottrazione di mansioni. Vista l’impossibilità di porre in essere un licenziamento per giustificato motivo, o soggettivo o per giusta causa, il lavoratore viene trattenuto in azienda e percepisce una retribuzione corrispondente al suo livello di inquadramento, ma viene posto di fronte a una vera e propria inattività che a lungo andare lo demoralizza e deprime. Il lavoratore viene a tal punto esasperato, che può decidere di dare le dimissioni o, come si verifica nella stragrande maggioranza dei casi, la sua depressione diventa così forte che è costretto a mettersi in malattia per molti mesi. Quando viene superato il periodo di comporto è previsto il licenziamento.
NECESSITA’ DI LIBERARE POSIZIONI LAVORATIVE
All’interno dell’azienda si possono realizzare delle situazioni di cattiva gestione dell’organizzazione aziendale. Alcuni progetti o programmi che si pensava fossero produttivi e redditizi, col tempo ci si rende conto che non lo sono o che non hanno dato i risultati preventivati. Dunque risulta che sono state assunte delle persone in numero eccedente rispetto alle risorse aziendali. I questi casi l’azienda, non potendo licenziare per giustificato motivo oggettivo perché in realtà non si realizzano delle vere e proprie perdite di esercizio nell’ultimo bilancio e quindi non potendo giustificare licenziamenti di personale assunto in epoca piuttosto recente, comincia a vessare il lavoratore facendolo sentire inadeguato e superfluo. Questo tipo di vessazioni comporta senza dubbio l’ammalarsi del lavoratore e di conseguenza la sua necessità di presentare le dimissioni.
Gravidanza e Maternità
È facile pensare che la donna in dolce attesa o in maternità rappresenti per l’Azienda una sorta di “ostacolo”, non solo perché è meno ricettiva e meno veloce nel porre in essere le attività lavorative, ma anche e soprattutto perché può mancare dal posto di lavoro per cause collegate alla gravidanza e alla nascita del bambino. La donna in gravidanza viene vista come una lavoratrice “scomoda”, ragion per cui il datore di lavoro, nella stragrande maggioranza dei casi, preferisce assumere donne neodiplomate o neolaureate, ancora molto giovani, la cui assunzione può portare anche degli sgravi fiscali, piuttosto che avere tra le lavoratrici una donna che ha la necessità di allevare i figli e che si assenta frequentemente a causa della malattia di questi ultimi. Inizia così l’attività vessatoria volta all’esasperazione e all’eliminazione della lavoratrice, sempre più esausta per i numerosi rimproveri e per le angherie subite (demansionamento, sottrazione di mansioni, sottrazione di responsabilità, cambio di mansione pregiudizievole, ecc…). Il tutto viene aggravato da uno stato di debolezza psichica che caratterizza la donna nel momento della gravidanza e nel momento immediatamente successivo alla stessa (crisi post parto). La lavoratrice, esasperata, dà le dimissioni (che devono essere inviate all’Ispettorato del Lavoro) e dunque si realizza la sua eliminazione. In questi casi la tutela nei confronti della lavoratrice madre non si risolve solo nella particolare attenzione che la legge pone verso queste tematiche (non si può licenziare la lavoratrice fino al compimento di un anno di età del nascituro), ma anche attraverso l’aiuto che può derivare da un organismo di nuova istituzione che si chiama Consigliera di Parità. Le lavoratrici che hanno riscontrato questi problemi possono, infatti, rivolgersi alla Consigliera di Parità della propria città o regione e chiedere un aiuto legale, del tutto gratuito, affinché possano essere ripristinate le situazioni quo ante e risarciti gli eventuali danni.
Antipatie
Un luogo di lavoro è un luogo sociale, all’interno del quale sono presenti diverse figure, che si avvicendano, si alternano e che rientrano, spesso e volentieri, in un’organizzazione di tipo gerarchico. Possono quindi, come è naturale che sia, nascere delle antipatie, che alle volte si sviluppano in attività vessatorie da parte di soggetti gerarchicamente sovrapposti, ma anche da parte degli stessi colleghi. Tali attività possono aggravarsi attraverso minacce, critiche e vessazioni varie in maniera tale da portare allo sfinimento psicologico del lavoratore e indurlo alle dimissioni. In questi casi il lavoratore può impugnare i comportamenti vessatori e chiedere l’intervento dell’azienda, in base a quanto stabilito dall’art 2087 del codice civile, cercando di ottenere un risarcimento del danno e di redimere le controversie insorte.
Sentenza – Mobbing e periodo di comporto
Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 14643 dell’11 giugno 2013.La malattia professionale (sindrome ansioso-depressiva) derivata dal mobbing, è sufficiente ad escludere la legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto.
La ricorrente, ……… è stata licenziata per superamento del periodo di comporto. La lavoratrice ha sostenuto però che la malattia per la quale aveva superato il periodo di comporto (frequenti stati depressivi, ansie e crisi di panico) era stata causata da demansionamento illegittimo e da altri comportamenti datoriali integranti la condotta di mobbing. Tale impostazione è stata accolta dal Giudice di primo grado, che ha anche riconosciuto alla ricorrente il risarcimento del danno alla persona, e la Corte d’appello ha confermato tale pronuncia nella parte in cui ha ravvisato la responsabilità della Società datrice nella lesione della salute della dipendente che ne aveva determinato il superamento del periodo di comporto per malattia e la conseguente illegittimità del licenziamento……La Corte d’appello ha fatto riferimento al teste N., che in particolare ha riferito in ordine all’atteggiamento tenuto dal coordinatore per le vendite nei confronti della C., per la quale vi fu un vero e proprio svuotamento di mansioni al fine “di rendere la vita impossibile alla dipendente e di costringerla a dimettersi”. In tale contesto oppositivo per la lavoratrice i giudici, sia di primo grado che d’appello, hanno ritenuto, con tipica valutazione di merito ad essi devoluta, che le assenze per malattia della lavoratrice fossero dovute all’illegittimo e discriminatorio comportamento datoriale e che quindi non fossero da computare ai fini del periodo di comporto. Per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; e) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.